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martedì 16 aprile 2013

Due stagioni con la rappresentativa regionale - parte seconda

Eccomi di nuovo qui, come promesso, a parlarvi della mia esperienza appena conclusa con la rappresentativa femminile regionale.

Allora, riprendiamo a raccontare: Dopo aver superato il primo momento di sconcerto, di cui ho parlato nel post precedente,  e dopo aver cercato, con risultati piu o meno profiqui, di vedere qualche allenamento delle squadre provinciali, il lavoro vero e proprio è cominciato con la partecipazione da osservatore interessato al Trofeo delle Provincie (TdP) il 23 gennaio a Oristano. Bisogna purtroppo dire che quell'anno (2011) la fascia di età del TdP era la stessa del Trofeo delle Regioni (TdR), e cioè 96-97. Questo è stato, tra l'altro, uno dei cambiamenti che con Pier Paolo siamo riusciti a introdurre, a nostro parere in positivo, a partire dall'anno successivo. Ma di questo ne parlerò più avanti.

Oltre che per osservare all'opera le pallavoliste più "in gamba" che la Sardegna poteva offrire, il TdP è stata un'occasione per definire con Pier Paolo i programmi di lavoro e per comprendere che cosa il CR sardo si aspettava da noi. Sicuramente ora avevamo le idee più chiare e potevamo iniziare ad organizzare, sin dai primi di febbraio, i primi collegiali.

Devo dire la verità, mi aspettavo poco. Ero cosciente dei problemi del volley femminile sardo, basta scorrere i vecchi articoli di questo blog per conoscere il mio punto di vista. Però, pur riconoscendo che ho visto pochissimi talenti degni di questo nome, ho visto tante ragazze assetate di pallavolo, fisicamente dotate e tecnicamente ben impostate, anche se purtroppo non in tutti i fondamentali. Insomma a mio parere il materiale su cui lavorare c'era, al contrario di quello che spesso noi allenatori ci raccontiamo, come alibi, per giustificare i nostri scarsi risultati in palestra.

Ma era giunto il momento di concentrarci  sul primo obiettivo della stagione, i Giochi delle Isole, che si sarebbero tenuti a Palermo da lì a poco. Il gruppo era più o meno quello del TdR dell'anno precedente, con qualche piccola modifica, anche a causa dei cambiamenti sul sistema muro-difesa che avevamo deciso di fare. L'obiettivo era infatti il primo posto, che voleva dire vincere con le fortissime padrone di casa: la squadra siciliana. E vista la caratura tecnica delle avversarie sapevamo che questo non sarebbe stato possibile senza un sistema di gioco un pochino più "evoluto".

Così, dopo un sempre troppo breve periodo d'allenamento, il 23 maggio il volo charter messo a disposizione dal CONI ci aspettava per portarci in Sicilia, dove per la prima volta avremmo potuto verificare la bontà del lavoro fatto fino ad allora. Ma di questo vi parlerò la prossima volta. Ciao!

martedì 5 marzo 2013

Due stagioni con la rappresentativa regionale - parte prima

Ciao a tutti! Riprendo a scrivere su questo blog, sperando che mi abbiate perdonato la lunghissima assenza dovuta alle cause di cui ho parlato nel precedente post, con l'intenzione di raccontarvi la mia esperienza con la selezione regionale femminile della Sardegna.

Tutto è iniziato con una telefonata di Vincenzo, presidente della FIPAV Sardegna, nel dicembre 2010, in cui mi disse che era stato fatto il mio nome durante una riunione del C.R.Sardo e che voleva verificare la mia disponibilità a ricoprire l'incarico di allenatore delle squadre giovanili federali sarde, insieme ad un altro allenatore di cui ancora ignoravo il nome e per un biennio, fino alle prossime elezioni regionali.

Sinceramente la richiesta mi ha preso un pò alla sprovvista; non mi aspettavo infatti, per vari motivi, che la FIPAV regionale mi tenesse tanto in considerazione da affidarmi un incarico di tale importanza. E' vero, solo sei mesi prima la mia squadra aveva ottenuto la promozione in serie B2, ma questa era tutta un altra cosa! Tra l'altro avevo appena deciso di prendermi un anno sabbatico dal volley per dedicarmi all'ampliamento della famiglia... Vabbè, secondo voi che ho fatto? Naturalmente ho detto di si, mi piacciono le nuove esperienze, e un pò incoscentemente ho deciso di iniziare questa avventura.

Così ho cominciato a lavorare, ad informarmi con altri allenatori che avevano già fatto questa esperienza, a cercare materiale per farmi un corretto modello prestazionale da seguire in palestra. Nel frattempo si delineavano meglio i contorni dell'incarico: Io sarei stato 1° allenatore per i Giochi delle Isole e 2° al Trofeo delle Regioni. Mi fu comunicato anche il nome dell'altro allenatore, Pier Paolo, di Olbia, che conoscevo poco e solo come avversario in alcuni campionati di Serie C. Lui sarebbe stato il 1° allenatore nel Trofeo delle Regioni e il mio secondo nei Giochi delle Isole.

Tante incognite e poche certezze. Questa era la sensazione all'inizio. Un salto nel buio? Con Pier Paolo iniziammo a sentirci al telefono per organizzare il lavoro ed i primi raduni allo scopo di conoscere le atlete. Anche lui, come me, è dubbioso. Non mi conosce,  non sa come lavoro in palestra, non conosce il mio carattere, non sa se ci troveremo bene insieme. Lo capisco. In questa regione ci sono tanti ottimi allenatori ma anche tanti presuntuosi ed esaltati, perciò non è facile dare subito fiducia ad uno (quasi) sconosciuto.

Pensammo che fosse meglio dividerci i compiti, almeno per i primi raduni. La Sardegna è grande, troppo grande e mal collegata. Le ragazze da vedere erano tantissime, perciò decidemmo: lui iniziò a fare una prima indagine nella zona di Sassari e Nuoro ed io ad Oristano e Cagliari.

Ci iniziammo a scontrare con i primi problemi: disponibilità e logistica delle palestre, campanilismi tra società, timore di vedersi soffiare le proprie atlete dalle "solite" società più ricche... oltre ad una diffusa diffidenza, soprattutto da parte delle società più "piccole", verso la FIPAV regionale e, di conseguenza, verso di noi che la rappresentevamo. Ho cercato di capire i motivi di questa diffidenza, parlando coi dirigenti e gli allenatori delle società. Sono saltati fuori i motivi più disparati, dalla semplice antipatia alla critica al lavoro fatto da chi ci ha preceduto, dall' incomprensione dell'utilità della rappresentativa regionale alla presunta ingratitudine dovuta ad episodi passati.

Insomma un campo minato. La prima cosa che allora decisi di fare era di cercare di comprendere i problemi che le società ponevano e, pur conscio di non poterli risolvere, cercare quantomeno di fargli capire l'importanza del nostro lavoro ed i vantaggi che le ragazze e, di riflesso, la società di appartenenza potevano avere nel lavorare in palesta con ragazze di altre società, anche se solo per pochi allenamenti.

Ho anche cercato di coinvolgere il più possibile allenatori, dirigenti e genitori, convinto che l'esperienza della selezione regionale deve andare oltre il coinvolgimento della singola atleta, diventando un occasione di partecipazione e scambio di opinioni che coinvolga tutti, ed in particolare quelle realtà più isolate che, probabilmente,  hanno meno occasioni di confronto pallavolistico al di fuori della loro zona o provincia (l'ho sempre pensato, come dimostra questo post scritto sei anni fa).

A questo punto mi chiederete: come è andata? Sei riuscito a combinare qualcosa? Beh, spero e penso di si. Ma non voglio annoiarvi troppo, ve lo racconterò in un prossimo post. Ciao e a presto.

mercoledì 12 gennaio 2011

Programmi, modifiche inattese e improvvisazione (parte prima?).

Tutti noi allenatori arriviamo la sera in palestra (mi auguro) con il nostro bravo programma di allenamento, attentamente preparato a casa (vi evito noiose elucubrazioni su macrocili, microcicli, ecc.). La domanda è: quante volte riusciamo a svolgerlo così come lo abbiamo pensato? spesso, mai, talvolta? Per sviscerare un pò questo problema comune, penso, a tutti coloro che cercano di applicare una qualche forma di programmazione alla propria attività di allenatori, ho iniziato a chiedermi innanzitutto quali sono i motivi per cui ciò accade per poi, spero, ragionare su metodi e soluzioni per cercare di migliorare le cose (magari in un post successivo).

Allora: Perchè talvolta non riusciamo a fare, in tutto o in parte, quello che ci siamo preventivamente proposti? Provo a buttare giù un elenco dei motivi, assolutamente nell'ordine in cui mi saltano in mente e senza dettagliare, giusto come spunto di riflessione;
  1. Assenza imprevista di uno o più atleti;
  2. Assenza imprevista di un collaboratore;
  3. Più o meno gravi infortuni o indisposizioni di cui non eravamo informati;
  4. Logistica della palestra e/o attrezzature mancanti o danneggiate;
  5. Approccio negativo degli atleti all'esercizio proposto;
  6. Esercizi proposti che si rivelano inadatti alla situazione;
Sicuramente ve ne sono altri, ma almeno nella mia esperienza questi sono i principali motivi che mi spingono talvolta a modificare "al volo" uno o più esercizi in un allenamento.

Dando per scontato quello che ho detto all'inizio, e cioè che noi allenatori prepariamo sempre i nostri allenamenti con serietà e attenzione, cercando di prevedere tutti i problemi possibili, diciamo che mentre i primi quattro punti sono spesso inevitabili, gli ultimi due dipendono molto, a mio parere, dall'esperienza dell'allenatore e dalla conoscenza che egli ha del suo gruppo, intesa come capacità di prevedere le reazioni dei suoi atleti alle esercitazioni proposte. E' vero che la disciplina sportiva del nostro gruppo (dirigenti compresi) può ridurre al minimo la possibilità di trovarci nelle condizioni descritte dai punti 5 e 6, ma mi piacerebbe ragionare un pochino su queste ultime due situazioni, che tra l'altro sono molto simili tra loro.

Il nostro obiettivo in palestra, credo che su questo siamo tutti d'accordo, è sfruttare al meglio il tempo a disposizione per migliorare quelle capacità che permetteranno ai nostri atleti di giocare insieme nel modo più efficace. Detto ciò, ricordo che esistono molte pubblicazioni che correlano direttamente l'apprendimento motorio alla situazione emotiva* dell'allenamento, quasi tutti arrivando alla conclusione che l'apprendimento non avviene o avviene in forma molto limitata se l'atleta non "accetta" l'esercitazione proposta. Questo a prescindere l'esercizio in se sia valido o no.

Ciò che intendo dire è che anche il migliore esercizio, se non viene considerato valido dagli atleti o comunque non soddisfa le loro aspettative, non ci consente di giungere ai risultati sperati. In pratica stiamo usando male il tempo a nostra disposizione.

Ma perchè uno o più atleti, in determinate situazioni, tendono a reagire ad un esercitazione proposta in maniera negativa? Premetto che, nel mio modo di ragionare, la responsabilità di ciò che accade in palestra è sempre dell'allenatore, il quale deve fare di tutto per capire i problemi del gruppo e delle persone prima che esplodano e prevenire le situazioni negative con interventi più o meno drastici.

Detto ciò tenderei a classificare i motivi più o meno in quattro gruppi, tralasciando volutamente le cause esterne alla palestra, che comunque sono da tenere in considerazione:

  • Esercitazione inadatta al gruppo: Probabilmente l'esercizio proposto non è adatto alla qualità fisiche, tecniche o tattiche delle atlete. Il compito richiesto potrebbe essere troppo semplice (genera noia perchè l'atleta non ha bisogno di impegnarsi troppo per riuscire) o troppo complicato (produce frustrazione in quanto non si riesce a farlo).
  • Situazione ambientale inadatta all'esercizio: L'ambiente in cui stiamo lavorando spesso crea difficoltà nell esecuzione dell'esercitazione proposta: troppi atleti coinvolti in una palestra piccola, un esercizio poco dinamico in una giornata fredda, ostacoli che non ci consentono di spostarci liberamente, il sole in faccia che entra da una finestra, ecc. sono tutti motivi che possono indurre l'atleta a considerare l'esercizio frustrante.
  • Esercitazione inappropriata al momento: E' forse il caso più difficile da valutare, in quanto la stessa esercitatione, proposta in altri giorni allo stesso gruppo ha dato e darà risultati positivi. Può essere dovuto al fatto che il giorno abbiamo sollecitato troppo alcuni gruppi muscolari, alla stanchezza di alcuni atleti chiave (es. palleggiatore) o, talvolta, alle pressioni dovute alla stagione agonistica (es. situazione in classifica, andamento delle ultime gare).
  • Esercitazione percepita come inutile: Accade quando non abbiamo spiegato bene il fine dell'esercizio o, più in generale, quando uno o più atleti non considerano quell'esercizio come allenante e utile alla loro crescita. Capita molto spesso con gruppi e atleti esperti che hanno difficoltà ad accettare nuove metodologie d'allenamento o con giovani che si sono allenati sempre con lo stesso allenatore.
Ok. Qui mi fermo... ci sono abbastanza spunti per ragionare. In un prossimo post mi piacerebbe scrivere qualcosa su come agire per risolvere o limitare al minimo l'occorrenza di queste situazioni, perciò scrivetemi come sempre per farmi sapere il vostro punto di vista, ok?
Ciao

---
* ricordo un libro interessante letto tempo fa, purtroppo non era mio ma solo in prestito, che si intitolava "Manuale di Psicologia agonistica". potete vederne un'anteprima cliccando qui  

lunedì 15 novembre 2010

Filosofia e pallavolo

Domenica giornatona di volley a Cabras: corso allenatori la mattina e finali del Round Robin di Lega Femminile tra, in ordine di classifica finale, Spes Conegliano, Norda Foppapedretti Bergamo, Yamamay Busto Arsizio e Riso Scotti Pavia.

Sulle partite non tanto da dire. Sicuramente è stato bello vedere queste fantastiche atlete sfidarsi stando seduti praticamente a livello campo, anche se le tante assenze, distribuite più o meno in tutte le formazioni, delle stelle italiane e straniere impegnate ai mondiali in giappone ha inciso sicuramente sugli equilibri di gioco. Non ha aiutato poi la scelta del campo di gioco, ottimo per la visuale ma scomodo per gli spettatori, sicucuramente insufficiente ad ospitare partite di questo livello, con pochi spazi di manovra per le squadre. Non ho contato quante belle difese sono terminate sulle travi del soffitto o in tribuna. Complimenti comunque alla società Gymland che ha ospitato e organizzato l'evento, alla sua seconda edizione, insieme al comitato FIPAV di Oristano.

Ma ciò di cui voglio raccontare riguarda il corso della mattina, in cui ho avuto la possibilità di sentir parlare l'allenatore della Spes Conegliano Dragan Nesic (che abbiamo visto a cagliari qualche mese fà come allenatore della nazionale femminile bulgara) e un giovane e bravo preparatore atletico del suo staff.

Ciò di cui Dragan ha parlato è stato il suo modo di concepire l'allenamento e la pallavolo in generale, in particolare concentrandosi sull'attacco e la difesa. La qualità dell'approccio dell'atleta verso l'allenamento, la ricerca della perfezione e le richieste dell'allenatore in questo senso sono stati gli argomenti che hanno fatto da filo conduttore a tutta la mattinata con interessanti accenni alla comunicazione in palestra e agli interventi dell'allenatore. Lui ha intitolato il suo intervento "Filosofia della pallavolo". Un concetto interessante, che condivido ampiamente, in quanto è quello che spesso manca, a mio parere, agli allenatori più giovani, eccessivamente concentrati sui problemi tecnico-tattici ma che troppo frequentemente dimenticano gli obiettivi complessivi del lavoro in palestra e dell'approccio metodologico all'allenamento e, più in generale, alla vita in palestra.

Filosofia, una parola che assume un significato importante se accostata ad uno sport. Significa interrogarsi sul senso del fare una attività sportiva e interrogarsi su come approcciarsi ad essa, su come viverla, sul perchè farla. C'è bisogno che noi allenatori ragioniamo di più su questi concetti, perchè la metodologia dell'allenamento non può essere solo figlia della tecnica e della fisiologia, pena la sua assoluta inefficacia. Abbiamo in palestra persone, e troppo spesso ce ne dimentichiamo. Dobbiamo essere inflessibili nel richiedere la perfezione nell'allenamento, ma dobbiamo richiederla soprattutto come approccio mentale, trasmettendo il concetto che l'obiettivo è "vincere sempre, non vincere ogni tanto" così come dobbiamo convincere l'atleta che bisogna allenarsi bene sempre, non ogni tanto.

Bravo Dragan, un bella lezione per tutti noi.

mercoledì 9 aprile 2008

Il rinforzo: istruzioni per l'uso

Leggevo proprio ieri un interessante articolo di Cei sull'uso del rinforzo nello sport. Ho trovato molto interessanti alcuni concetti che esprime, in particolare su quando usare il rinforzo e su cosa applicarlo... Scusate, ogni tanto dimentico che non tutti quelli che mi leggono sono allenatori. Ricopio la definizione di rinforzo fornita dall'autore: In psicologia per rinforzo s'intende un "qualsiasi evento suscettibile di aumentare la probabilità di emissione di una risposta". I rinforzi possono essere positivi o negativi a seconda che tendano a incoraggiare o inibire un specifico comportamento, pensiero o sentimento. Per fare alcuni esempi, un semplice "bravo", un occhiataccia, un urlo, un premio o una punizione possono essere considerati dei "rinforzi". Tra le cose che mi hanno fatto pensare, riporto testualmente questi tre punti:

"1) Rinforzare la prestazione e non solo il risultato. Ogni atleta desidera essere rinforzato per la qualità della sua prestazione più che per la vittoria. Talvolta, invece, l'allenatore è più preoccupato a vincere o a non perdere un incontro piuttosto che essere interessato alla prestazione dei suoi atleti. Un comportamento esasperato in questa direzione conduce gli atleti a pensare che l'allenatore non è interessato a loro ma solo alla vittoria.
2 ) Rinforzare gli atleti per l'impegno e non solo per il loro successo. Per imparare nuove abilita o migliorare quelle già apprese bisogna fornire il massimo dell'impegno consci che si commetteranno anche degli errori e che solo continuando in questo modo la prestazione migliorerà. Quando l'atleta sa che l'allenatore richiede il massimo dal suo impegno, e che per questo viene rinforzato non avrà paura di provare e riprovare. Al contrario, se si aspetta di venire premiato solo in base al risultato di una prestazione e possibile che abbia paura di sbagliare pensando alle conseguenze negativo di un insuccesso. Comportandosi in questo modo l'allenatore favorisce l'insorgere dell'ansia e dell'insicurezza nei suoi atleti, che potrebbero anche ridurre il loro impegno, concentrandolo solo sulle abilità che padroneggiano con successo.
3) Rinforzare i piccoli miglioramenti e non solo il raggiungimento di grandi obiettivi. L'impegno e il miglioramento vanno rinforzati con continuità. Ogni atteggiamento o comportamento dell'allenatore nei riguardi di ciò che avviene sul campo o in palestra funziona da rinforzo per l'atleta. È bene, quindi, essere consapevoli del proprio modo di stare in relazione con gli atleti, servendosi in modo continuato e non saltuario delle proprie reazioni per rinforzare e incoraggiando i comportamenti ritenuti positivi ed efficaci per
l'attività svolta."


Quante volte mi sono comportato così? E quante volte ancora oggi faccio questi errori? Troppo spesso noi allenatori siamo più interessati al vincere o al perdere un punto, una gara o un campionato, piuttosto che premiare la qualità della prestazione. Premiamo gli atleti che raggiungono gli obiettivi posti, ma raramente lodiamo l'impegno se l'obiettivo non viene raggiunto.

Questo articolo mi ha dato da pensare... per chi vuole leggerlo tutto, lo trovate integralmente qui. Ciao

mercoledì 12 dicembre 2007

La Motivazione negli atleti "maturi"

Mi capita quest’anno di vivere in prima persona la gestione dei problemi motivazionali nei gruppi cosiddetti “variegati”, quelli cioè in cui convivono insieme giovani di belle speranze con giocatori evoluti, convogliati insieme per un unico obbiettivo di squadra.
Generalmente si attrezza una squadra giovane per affrontare campionati seniores con l’ausilio di due o tre elementi di tasso tecnico elevato che possano sopperire ad eventuali limiti tecnici e psicologici dei giovani compagni. In una realtà del genere si può ben capire che per un atleta giovane la stagione diventa doppiamente stimolante, sia perché con l’incremento del tasso tecnico aumenta il livello di competitività della squadra di cui il giovane è parte integrante, sia perché durante gli allenamenti l’attenzione, alimentata dallo spirito di emulazione verso i compagni più esperti, rimane sempre elevatissima.
Ci siamo invece mai posti il problema dei cosiddetti “anziani”, in altre parole come si fa a tenere alto il livello di motivazione in atleti cosiddetti “maturi” che devono quotidianamente convivere con i rendimenti altalenanti e le mancanze di continuità dei loro compagni più giovani?
Al di là dei cosiddetti incentivi economici che possono convincere un atleta esperto a mettersi in discussione con un gruppo più giovane è innegabile che ci sia anche una componente psicologica che non bisogna trascurare.
In alcuni casi penso che ci sia una predisposizione naturale per alcuni senior ad accettare questo ruolo di “coach” aggiunto dentro e fuori dal campo (in altri termini non tutti sono disposti a tollerare allo stesso modo la mole di errori e la mancanza di continuità di prestazione di un ragazzo durante gli allenamenti o le partite), per cui questa “missione” di contribuire alla crescita del giovane pallavolista è in questi atleti automotivante.
Ma non sempre questo accade, ed allora l’allenatore deve intervenire cercando quegli spunti affinché il livello di attenzione e di buona predisposizione verso l’obbiettivo comune di squadra rimanga sempre alto onde evitare che si generino preoccupanti situazioni destabilizzanti per il gruppo che talvolta possono portare anche a dolorosi allontanamenti (volontari o coatti).
In cosa consistono questi spunti? Beh si parte dal presupposto che per qualunque giocatore, per quanto anziano o esperto o blasonato, è impossibile che non esistano degli aspetti tecnici o tattici per i quali non ci siano ulteriori margini di miglioramento. E proprio da qui che secondo me bisogna partire, fissando anche con questi atleti dei piccoli obbiettivi tecnici o tattici per i quali ci si aspetta un feedback positivo nel corso della stagione. (ad. es. l’alzata in bagher per un palleggiatore evoluto, o il miglioramento di una direzione del bagher laterale per un ricevitore, o l’alzata per un centrale, o una tecnica difensiva…)
In questo modo si dovrebbe ottenere un duplice risultato:

  • Il livello di motivazione per questi atleti, che non si sentono più soltanto delle “balie asciutte”, dovrebbe rimanere inalterato durante tutta la stagione, finalizzato al raggiungimento del loro obbiettivo individuale.
  • La presa di coscienza di non essere perfetti ma di avere margini di miglioramento li dovrebbe rendere sicuramente più tolleranti nel sopportare le lacune dei giovani compagni.

mercoledì 28 novembre 2007

L'ottica dell'allenatore

Un problema che ho avuto quando ho iniziato a allenare è stato il guardare la partita con il coinvolgimento del giocatore, piano piano ho capito che dovevo guardare la partita da una maggiore distanza, ora mi spiego. Il giocatore valuta i palloni uno per uno, giro alla volta, si concentra nel massimo risultato per la singola palla, se anche l’allenatore usasse quest’ottica non capirebbe la partita, non avrebbe la lontananza giusta per capire l’evolversi della partita e capire su cosa intervenire, diciamo che dovrebbe essere quasi un dottore a bordo campo che cerca di trovare la medicina giusta al suo malato con la lucidità e il distacco che permetta di far funzionare il cervello. Troppo spesso invece presi dall’andamento della gara e il sangue al cervello che annebbia la vista ci troviamo più in palla dei giocatori, cosa che dovrebbe essere evitata ma cosa che è più facile a dirsi che a farsi, sarebbe meglio sforzarsi e guardare la partita da un ottica più lontana, che permetta non di guardare le azioni singole, ma lo sviluppo del gioco nel suo complesso. Tutti subiamo la partita come coinvolgimento e come emozioni, ma i risultati di questa tensione sono i più disparati, dalle urla senza fine ai silenzi, toccarsi i capelli, girarsi, saltare oppure parlare con tranquillità dopo l’errore del secolo. Una cosa però dobbiamo sempre evitare, andare fuori di testa, perché quando una nostra atleta ha i 5 minuti noi la facciamo accomodare in panchina, ma se fuori di testa andiamo noi… allora la partita è finita. Il nostro primo obiettivo è far si che la squadra si esprima al massimo, solo capendo la gara possiamo riuscirci, per fare quello allontaniamoci dalla singola palla e cerchiamo di avere uno sguardo il più ampio possibile, altrimenti con lo sguardo del giocatore si avranno secondo me 2 problemi: l’impossibilità di una lettura generale dalla gara e un coinvolgimento emotivo che ci potrebbe costare la lucidità delle scelte.

martedì 9 ottobre 2007

Gli errori sono tutti uguali?

Una cosa di cui non si parla tanto è l'impatto degli errori, nostri e dell'avversario, sull'andamento della gara e sul rendimento dei singoli giocatori. Eppure chi ha lavorato un pò con gli scout sà che con l'abbassarsi del livello tecnico cresce l'influenza degli errori sul punteggio; spesso anche in incontri di alto livello gli errori sono la causa principale dei punti.
Ragionandoci un pò su, direi che esistono almeno tre tipi di errori:
1) Errori "non procurati" dall'avversario: Sono gli errori la cui responsabilità è dovuta alla cattiva esecuzione tecnica di un'azione di gioco, senza che l'avversario abbia fatto nulla per metterci in difficoltà. Non sempre sono attribuibili ad un singolo giocatore. Un esempio può essere l'attacco in rete dopo una buona alzata, oppure un bagher di appoggio sbagliato, ecc.
2) Errori "indotti" dall'avversario: In questo caso sono gli avversari che, con il loro attacco, il loro muro o la loro battuta inducono all'errore la nostra squadra. Esempi? Un giocatore a muro che abbocca ad una finta, o anche un difensore ben piazzato che viene colpito da una schiacciata avversaria senza riuscire a controllare la difesa.
3) Errori "tattici". Sono tutti quegli errori dovuti alla cattiva esecuzione dei compiti tattici e di organizzazione di gioco. Non sempre hanno come conseguenza il punto per l'avversario, ma più spesso sono causa delle due categorie di errori precedentemente descritte. Un esempio può essere l'errato piazzamento difensivo o un incomprensione tra alzatore e attaccante.

L'abilità di un allenatore nella correzione degli errori sta spesso proprio in questo processo: Capire l'errore, individuarne la causa, scegliere le esercitazioni corrette per eliminarlo. Ovviamente non è facile, soprattutto se a ciò si aggiunge la diversa "sensibilità" all'errore tra gli atleti e gli allenatori. Ho notato, e qui mi piacerebbe sapere se è così anche per voi, che gli atleti considerano errori "importanti" solo quelli non procurati, i più evidenti e i primi che ho descritto. Gli altri due tipi di errore spesso non li considerano veri e propri errori, e il ricorso all'alibi è ancora più evidente (l'avversario ha schiacciato troppo forte, non mi sono messo là perchè..., eccetera).
Trovo sempre molta difficoltà nel far capire all'atleta che è un errore grave anche un piazzamento sbagliato, una disattenzione, il non controllare una palla che ci colpisce, e così via. Capita anche a voi?

Un ultima cosa, che probabilmente meriterà un prossimo post: Mi capita spesso di intervenire su atleti che, per paura di fare un certo errore, ne fanno di più gravi. L'esempio che mi viene in mente è il giocatore che pur di non rischiare di venire murato attacca su traiettorie improbabili schiacciando in rete o fuori. E' evidente che ciò avviene perchè nella sua sensibilità l'essere murati è più grave di schiacciare fuori o in rete (per me ovviamente è il contrario). Ma come dicevo di questo parlerò meglio in un prossimo post.

lunedì 4 giugno 2007

Allenatore e Palleggiatore

Una delle cose che mi incuriosisce di più quando assisto da spettatore ad una partita di pallavolo, è soffermarmi sul rapporto Palleggiatore – Allenatore durante le fasi di gioco, e questo indipendentemente dal fatto che si tratti di match di alto livello (alla TV per intenderci) o di campionato giovanile o di divisione. Se ci pensiamo in effetti si tratta di un confronto tra due condottieri, uno che guida durante tutta la settimana e fino ad un istante prima del fischio d’inizio, un altro che conduce le danze per tutta la durata della partita. I più superficiali potrebbero liquidare banalmente l’argomento dicendo che il palleggiatore deve semplicemente riportare in campo le tattiche preparate in campo con l’allenatore e provate e riprovate tutta la settimana, e che l’allenatore deve lavorare “preventivamente” per dipanare tutti i dubbi e per far si che all’ingresso in campo il palleggiatore abbia sempre le idee chiarissime su cosa debba fare in ogni situazione (pensiamo alla serie A dove si effettuano una o due riunioni video alla settimana e dove a tavolino viene valutata analiticamente l’efficienza della propria squadra in ogni rotazione in funzione del tipo di attacco e del muro avversario); poi invece inizia la partita e ci si accorge che quasi mai è tutto così lineare e preventivabile e che quindi non per tutte le situazioni contingenti era stata studiata la adeguata “contromisura”.
A questo punto è interessante osservare come nelle varie squadre viene affrontata la situazione e soprattutto chi si assume l’onere di decidere cosa fare: ci sono allenatori che decidono di non intervenire sul gioco della propria squadra e lasciano al palleggiatore le scelte sul tipo di palla e sull’attaccante da servire (atteggiamento passivo); altri invece che durante i time-out danno delle indicazioni di massima su quello che sta succedendo in genere in funzione degli avversari (con frasi tipo: “quel centrale avversario è lento negli spostamenti” oppure “quel laterale è scarso a muro”) e quindi indirettamente condizionano il palleggiatore nelle scelte (atteggiamento indirettamente attivo), oppure ancora ci sono allenatori che sistematicamente intervengono dando indicazioni precise sul tipo di gioco da fare (atteggiamento attivo).
E’ innegabile che questi diversi metodi di comportamento siano funzione inoltre sia del tipo di squadra che si trova a gestire (presumibilmente l’atteggiamento passivo sarà più probabile in gruppi seniores con palleggiatori esperti, mentre quello attivo sarà tipico delle squadre giovani con giocatori inesperti) sia della situazione di punteggio durante la partita (è più probabile un coinvolgimento diretto dell’allenatore sul gioco da fare dal 20 in poi, piuttosto che ad inizio set).
Io penso che per avere i risultati migliori ogni allenatore debba riuscire nel non semplice compito di modulare i vari atteggiamenti in funzione alle diverse situazione di punteggio e del tipo di gruppo che si segue, senza eccedere in un senso o nell’altro perché nel caso di atteggiamento sistematicamente passivo non si creano i presupposti per una crescita del palleggiatore che si attua mediante rinforzi costruttivi sulle scelte effettuate, nel caso opposto invece, scaricandolo sempre sulla responsabilità della scelta, non lo si abitua al ragionamento critico durante la gara. E voi, che tipo di atteggiamento preferite durante la gara con il vostro alzatore??

venerdì 6 aprile 2007

I sistemi rappresentazionali e il ruolo dell'allenatore

Vorrei anch’io contribuire al dibattito sui sistemi rappresentazionali (s.r.) lanciato da Andrea in un post di qualche giorno fa. E visto che lui cavolate non ne ha scritte.. magari provvederò io!
Spero comunque che le mie idee possano essere uno spunto per ragionare insieme su un tema molto importante. Le mie considerazioni si sviluppano su tre punti tra loro legati:

a) Il livello individuale-collettivo

Ferma restando la necessità di scomporre problematiche complesse analizzando alcuni aspetti singolarmente, concentrarsi troppo sul messaggio "individuale" può forse rischiare di essere fuorviante. In palestra un allenatore comunica nel 99% dei casi con la squadra. Se ci rivolgiamo ad un atleta spesso possono sentire anche gli altri e anche quando lo prendiamo da parte lanciamo comunque un messaggio (non verbale) al resto del gruppo. Dobbiamo preoccuparci della comunicazione a 360 gradi calcolando non solo gli effetti e le modalità di quanto diciamo ma anche di quanto non diciamo, praticamente sempre di fronte ad una platea di più individui.
Mi viene da domandarmi se si possa parlare anche di s.r. "collettivi" ossia: un gruppo ha un proprio s.r. dominante distinto da quello prevalente per la maggior parte dei singoli presi separatamente? Vale la pena di pensarci, specialmente se si parla di gruppi che hanno una propria “identità” collettiva ben definita.

b) I meccanismi di interazione dell’insegnamento

Possiamo affermare con certezza che il s.r. dominante individuale sia completamente esogeno ed immutabile (come il colore degli occhi, ad esempio)?
E’ probabilmente vero che l’allenatore non è un “educatore” però sono convinto che l’allenatore possa considerarsi un "istruttore": qualcosa di più di un "comunicatore". Per questo forse può (e deve) anche contribuire a sviluppare strategie di apprendimento efficaci nella persona che sta formando. La mia idea è che probabilmente si può anche sviluppare e modificare la combinazione dei s.r. attraverso la proposta e lo stimolo dell’istruttore.

Inoltre chi insegna (sia un maestro o un allenatore) non solo "comunica" ma trasmette una sua figura: da questa dipende in larga misura il successo nell'apprendimento. Le tecniche di mirroring (anche di linguaggio), a mio parere, funzionano fino ad un certo punto in questo contesto: l'empatia cresce in maniera molto più marcata quando l'istruttore è in grado di rappresentare un "modello" (e in questo entra anche il discorso del carisma, della coerenza, della personalità) che non passa necessariamente per il rispecchiamento e la comunanza di linguaggio. Intendiamoci, questi restano comunque strumenti di comunicazione importantissimi ma a volte, se ricercati in maniera sistematica e “ossessiva”, potrebbero addirittura sortire l’effetto opposto in termini di apprendimento.

c) L’ascolto attivo

Non si deve trascurare l'attenzione e l'ascolto attivo di chi apprende. Anche questo non si esaurisce, secondo me, nella coincidenza di linguaggio ed è legato anche al discorso della “figura” di chi insegna di cui dicevo prima.

Tralasciando il dibattito sulla scarsa evidenza empirica nella letteratura scientifica della coincidenza tra aspetti comportamentali e s.r. dominante, tipica della Programmazione Neuro Linguistica (come nel caso del movimento degli occhi..) e che forse giustificherebbe quanto sto dicendo anche sulla base di un'azione di insegnamento che avviene necessariamente in un contesto di incertezza sulle caratteristiche di apprendimento dell'allievo, io credo che in ogni caso ognuno di noi apprenda attraverso TUTTI i s.r. e quello dominante sia semplicemente quello del quale siamo “più coscienti”.

Utilizzare in maniera appropriata “linguaggi” diversi può in molte circostanze, a mio avviso, risultare più stimolante ed istruttivo piuttosto che appiattire la comunicazione ad un unico “stile” anche se perfettamente allineato con il principale metodo di acquisizione delle informazioni che un allievo utilizza. E questo, nella mia esperienza, lo riscontro anche a livello individuale.

Faccio un parallelo sicuramente azzardato, ma che può far pensare.

Nella letteratura economica esistono numerosissimi studi che dimostrano come l’utilità dei consumatori nell’acquisto di un bene sia determinata non solo dalla preferenza e dall’utilità assegnata a quello specifico bene ma anche dalla cosiddetta “preference for variety”. I consumatori che scelgono comunque quel bene, sono più contenti (e vanno più volentieri a comprare) se lo scelgono in un negozio dove ci sono altri 50 possibili sostituti piuttosto che in un negozio dove c’è solo quello, a parità di altre condizioni. Chiaramente anche in questo c’è un limite (dare troppe alternative è come darne troppo poche). Teniamo presente che nel caso della comunicazione stiamo parlando di un bene non “primario”: grazie al cielo chi ascolta un messaggio (come chi legge questo noiosissimo post..) ha sempre la sacrosanta opzione di non prestare attenzione…

Vi auguro Buona Pasqua!

martedì 3 aprile 2007

I Sistemi Rappresentazionali

Come avevo promesso commentando un post passato (clicca qui per leggerlo) , cerco di spiegare un pò più in dettaglio i sistemi rappresentazionali (da adesso li chiamo s.r.) e perché è così importante cercare di capire quelli del nostro interlocutore se vogliamo che assimili i concetti che gli stiamo trasmettendo.
Noi attingiamo informazioni dal modo che ci circonda attraverso i nostri 5 sensi; perciò, quando rappresentiamo al nostro interno le informazioni, tendiamo a schematizzarle attraverso delle sensazioni. I s.r. sono quindi i metodi attraverso il quale memorizziamo dentro noi stessi le informazioni che apprendiamo. Teoricamente sono 5, uno per ciascun senso, ma a noi ne interessano praticamente solo 3: visivo (vista), uditivo (udito) e cinestetico (sensazioni tattili e motorie).
Ogni persona ha il suo s.r. dominante, il sistema cioè che preferisce utilizzare per rappresentare le informazioni dentro se stesso. Il s.r. dominante è molto importante perchè determina molti tratti caratteriali e le capacità di apprendimento (per esempio una persona con s.r. dominante visivo apprenderà meglio leggendo o guardando un video piuttosto che ascoltando una lezione).

Ma come riconoscere il s.r. dominate del nostro interlocutore? Ci vuole un po’ di esperienza... ma cerco di dare qualche aiutino:
- I “Visivi” si riconoscono solitamente per la postura eretta, si guardano attorno con molta curiosità, Sono vivaci e usano frasi brevi con periodi meno letterari, con una gestualità molto accentuata; danno inoltre molta importanza all’aspetto estetico delle cose e delle persone. Mentre parlano utilizzano spesso parole e frasi come: “vedo”, “bello”, “è chiaro”, “guarda”, lampante”, “punto di vista”, “immagine chiara”, ecc.
- Gli “Uditivi” durante una conversazione muovono gli occhi lentamente, anche il respiro è più lento; imparano ascoltando e rispetto ai visivi sembrano più cauti e riflessivi. La voce è spesso monotona o melodica. Nei suoi discorsi compaiono spesso frasi tipo: “mi suona bene”, “senti”, “ascolta”, “nota stonata”,”parola per parola”, “tono”, ecc.
- I “Cinestetici” amano il contatto fisico e tutto ciò che ha a che vedere con tatto, gusto e olfatto; spesso giocano con oggetti quando parlano o ascoltano e hanno meno considerazione dell’aspetto delle cose rispetto ai contenuti; Memorizzano facendo pratica e spesso parlano poco. Nel parlare usano concetti del tipo “dolce”, profumato”, “duro”, “tosto”, “rammollito” “tocca con mano”, “sono teso”, “solido come una roccia”, ecc.

Per noi allenatori è ovviamente molto importante imparare a conoscere quale tipo di s.r. è dominante nei nostri atleti, perché ci consente di trasmettere l’informazione nello stesso “linguaggio” di apprendimento dell’atleta, riducendo così anche di molto i tempi di apprendimento.
Ci sono tante pubblicazioni sull'argomento per chi vuole approfondire, nel frattempo spero di avere un pò chiarito il concetto e... di non aver detto troppe cavolate :o)

giovedì 29 marzo 2007

Genitori e figli nello sport.

Sono rimasto tristemente impressionato da uno spiacevole episodio di cronaca, avvenuto ieri ai mondiali di nuoto in corso a Melbourne, e rilanciato da diverse reti TV: Un allenatore-padre ha aggredito davanti alle telecamere la sua atleta-figlia, rea di non aver dato il meglio di sè in vasca (clicccando qui il servizio su youtube).
L'episodio si commenta e si condanna da sè, ma mi ha indotto a fare qualche considerazione sul rapporto genitori-figli nello sport.
A mio parere, uno dei motivi principali per cui lo sport è un attività fondamentale nel periodo adolescenziale (e non solo) consiste nel fatto che esso è l'unica attività ludica che impone disciplina, costanza, rispetto delle regole e dell'autorità. In pratica il giovane, che anela a sentirsi "bravo" agli occhi dei suoi compagni e di chi gli sta intorno, apprende pian piano che per ottenere ciò deve rispettare delle regole e allenarsi con assiduità. Il tutto, però, divertendosi.
Lo sport e, di conseguenza, le prestazioni sportive , non possono essere frutto di imposizioni violente o comunque coercitive, così come i risultati sportivi non possono essere ottenuti senza qualche rinuncia e sacrificio. Il giusto, come sempre, sta nel mezzo.
Se questi aspetti valgono per noi allenatori, che vediamo i nostri ragazzi solo qualche ora alla settimana, a maggior ragione diventano importantissimi nell'ambito famigliare in cui essi vivono.
Noi allenatori non siamo educatori, e mai e poi mai possiamo illuderci di esserlo; nessun genitore ci porta il figlio in palestra per educarlo al posto suo. Quello che un genitore chiede allo sport, e quindi il vero motivo per cui ci affida suo figlio, è la speranza che lo sport aiuti lo sviluppo delle qualità fisiche e delle attitudini sociali del proprio ragazzo. Certo che è difficile, quando si riscontra nell'atleta un aspetto della sua personalità che noi riteniamo palesemente sbagliato, non intervenire. Ma prima di farlo bisogna chiedersi come la famiglia valuta quell'atteggiamento e, possibilmente, consultarsi con i genitori stessi se riteniamo necessario fare qualcosa.
Voglio dire che in ogni caso, anche se noi allenatori spesso biasimiamo (quasi sempre a ragione) l'atteggiamento in palestra di certi genitori, non possiamo pensare di intervenire sugli aspetti comportamentali dei ragazzi escludendo i loro genitori. Perciò, se non vogliamo perdere gli atleti, dobbiamo cercare di intervenire anche sul loro nucleo famigliare.
Purtroppo però, non sempre questo è possibile.

lunedì 26 marzo 2007

Comunicare in palestra

Vorrei fare alcune riflessioni su un argomento che mi è sempre stato molto a cuore, e che credo sia determinante per l'attività in palestra: come trasferire le informazioni ai nostri atleti? A mio parere spesso ci concentriamo troppo sul contenuto dell'informazione, sia essa un consiglio, una correzione, un incitamento od un rimprovero, e ci dimentichiamo alcune regole che sono alla base della teoria della comunicazione. Cercherò di chiarire ciò che intendo schematizzando in alcuni punti qualche concetto che considero molto importante:

1 - Penso che il momento scelto per trasmettere l'informazione sia determinante. Fare, ad esempio, fare una correzione durante l'esecuzione di un esercizio ha un effetto diverso dal farla durante una pausa. Il tipo di esercizio stesso si presta più o meno a certi tipi di informazioni; per intenderci a mio parere una correzione troppo "analitica" durante un esercizio globale spesso non riesce a raggiungere l'obiettivo.

2 - Altra cosa importante è il modo con cui interagiamo con gli atleti. Alzare la voce in modo che tutti sentano piuttosto che prendere l'atleta sottobraccio e parlarli a quattr'occhi, usare o no la gestualità, parlare al collettivo o all'atleta in particolare... insomma tutte le informazioni non verbali che trasmettiamo agli atleti non devono essere affidate al caso o all'umore del momento, ma attentamente soppesate in funzione anche del "peso" che vogliamo dare al contenuto dell'informazione.

3 - Sempre riguardo al modo di comunicare, dobbiamo ricordarci sempre che non tutti gli atleti hanno le stesse capacità nel recepire gli stimoli e le informazioni. Alcuni atleti hanno necessità di "vedere" l'esecuzione di un movimento per poterlo apprendere (apprendimento "visivo") mentre altri riescono a focalizzare un movimento meglio tramite le nostre spiegazioni vocali (atleti "auditivi"), altri ancora apprendono solo "provando" il movimento su di loro (atleti "cinestetici").

Purtroppo la maggior parte delle informazioni che diamo ai nostri atleti durante l'allenamento vengono dimenticate già all'inizio dell'esercizio successivo. A me capita spessissimo. Sono arrivato alla conclusione che questo è quasi sempre dovuto agli errori che faccio nel trasmettele.
Un ultima cosa: a volte ci dimentichiamo che le informazioni che comunichiamo non debbono servire solo alla correzione di un singolo gesto tecnico o alla soluzione di una determinata situazione tattica, ma devono far parte della "maturazione" complessiva dell'atleta... ma forse qui sto andando fuori tema. Sto entrando nel campo di quella roba che gli americani chiamano "self-efficacy". Magari ne parlerò un altra volta, ok?